Il caleidoscopio
- Marco Iannelli
- Feb 7, 2016
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Era stato trovato, quasi per caso, in uno di quei mercatini - chiamati spesso, con un pizzico di colore, “delle pulci” - che quasi sempre prendono forma, animano, gli angoli dimenticati delle più grigie periferie cittadine.
Il papà di Valeria, per dirla tutta, quella mattina si era alzato con uno strano senso di mal disposizione verso il lavoro per cui, quasi per non contraddire questo suo inusuale stato d’animo, quasi per venirgli incontro, aveva deciso di “marinare” l'ufficio per andare a curiosare nel ventre pigro e molle della sua città.
Camminando, con animo distratto, quasi incosciente, era quindi finito per caso fra le bancarelle di questo caratteristico mercatino delle cose senza tempo. La presenza di quelle disordinate bancarelle, in fondo, nell’intimo, lo metteva a suo agio, lo confortava, in quanto riusciva a solleticare quella parte un po’ oscitante del suo carattere.
Scivolare fra i banchetti dove erano esposti quegli oggetti polverosi,apparentemente inutili, permeati, ciascuno di essi, di una propria personalissima storia, ammennicoli che erano significativa espressione di un tempo vissuto, ma oramai lontano, era un esercizio che caratterialmente lo appagava profondamente, gli dava insita soddisfazione.
Letteralmente rapito, non tanto dagli oggetti in sé, quanto dall’idea, dal pensiero di essere entrato a far parte di una scenografia magicamente sospesa nel tempo, era caduto con lo sguardo su di una bancarella, caratterizzata dall’essere particolarmente caotica, sulla quale, fra le varie cianfrusaglie esposte senza un criterio logico che non fosse il puro disordine, spiccava un vecchio caleidoscopio.
L’oggetto aveva colpito la sua attenzione in quanto, seppur in diversa foggia, questo aggeggio metafisico era stato uno dei suoi giochi preferiti che avevano animato le sue interminabili e vuote giornate di bambino.
L’oggetto esposto era di cartone, ovviamente di forma cilindrica, rivestito di carta pergamena cangiante ed aveva, a testimonianza di una sua autorevolezza in termini anagrafici, un vissuto imbrunimento in prossimità della metà del tubo; imbrunimento dovuto, probabilmente, ad un ripetuto maneggiamento nel corso degli anni.
All’atto in cui lo aveva visto, quasi a tributargli una sorta di riconoscenza per avergli tenuto come oggetto una viva, cordiale compagnia in una fase controversa della sua vita, aveva immediatamente deciso che era venuto il momento di riscattarlo, di liberarlo dal caos delle cose senza tempo di quel mercatino.
Dopo averlo estratto amorevolmente con innaturale delicatezza e lentezza dal mucchio di oggetti esposti, aveva iniziato ad intavolare una trattativa (tutt’altro che facile) con l’omino posto al di là del banchetto. Questi, ritenendo inconsciamente di dover tener fede ad un ruolo imposto dal contesto, gli aveva reso niente affatto facile l’acquisto, quasi stesse per vendere una ottava meraviglia del creato.
Parlava di quell’oggetto – che di lì a poco non sarebbe più stato suo (era ormai già tutto predeterminato, deciso) – con toni enfatici, magniloquenti, solenni, quasi avesse avuto, quello che in fondo era un banale tubo di cartone, una sua anima referenziale, un recondito, ma innato, spirito mistico. Il tutto era fatto non tanto per alzare l’asticella del prezzo, quanto per creare un contesto ostico; quasi inconsapevolmente non avesse più voluto, alla fine, separarsi da quell’aggeggio e dal suo passato.
Alla fine il papà di Valeria era riuscito ad aver ragione di questa ingiustificata riluttanza del venditore nel momento in cui questi aveva magicamente intuito che il suo interesse per quell’oggetto non era dettato da un fortuito caso, ma era l’ultima pennellata di un bizzoso, creativo e consapevole fato.
Aveva, quindi, ripercorso a ritroso la strada verso casa armeggiando con l’occhio attaccato al suo caleidoscopio al punto che, in una occasione, attraversando la strada con lo sguardo completamente catalizzato, proiettato in quel coso, aveva rischiato di essere investito da una autovettura.
Giunto una volta a casa, per un inspiegabile stato d’animo, aveva ritenuto necessario donare quell’oggetto alla piccola Valeria la quale, dal canto suo, appena lo aveva adocchiato nelle mani del papà, lo aveva immediatamente fatto suo, acquisendone diritto di proprietà "vis maior cui resisti non potest", come solo i bambini sanno fare.
Negli anni che vennero, quell’oggetto per Valeria aveva avuto sempre un non so che di prodigioso, quasi di magico. Pur in presenza dei più bei giocattoli, quel vecchio caleidoscopio di cartone aveva nel suo immaginario, prima di bambina e poi di adolescente, un fascino, una attrattiva del tutto particolare. Era un oggetto a lei particolarmente caro, che custodiva con una cura innaturale, reverenziale, mista ad affetto; un oggetto, guardando all’interno del quale, stimolata da giochi cromatici sempre diversi, appagava la sua fantasia a volte per ore.
Ad un certo punto, divenuta oramai donna, quell’oggetto, messa da parte la sua funzione ludica, era divenuto uno strumento di lavoro. Valeria, da sempre appassionata di moda, in un dato momento della sua vita aveva intrapreso la difficile carriera di stilista. Riecheggiando le sue giornate di bambina, era capitata una bella mattina nel suo studio con l’occhio nuovamente proiettato nel suo caleidoscopio e, guardando forse con animo predisposto, aveva d’incanto trovato in quei giochi di colori, di forme geometriche coerenti, spunto per meravigliosi drappeggi arabeggianti. Alla fine, nella fase creativa del suo lavoro, il momento di guardare nel caleidoscopio per trovare una qualche ispirazione, era divenuto quasi una costante al punto che quel ripetuto esercizio era stato, alla fine, la sua fortuna professionale.
Da allora, era riuscita a creare degli abbinamenti cromatici particolarissimi, psichedelici, degni quasi di un alchimista folle dei colori.
Negli anni, il suo caleidoscopio era divenuto il suo inseparabile compagno di lavoro, quasi di vita.
Troneggiava, in bella mostra, su di una elegante mensola nell’angolo più solare del suo affermato studio quasi avesse voluto tributargli, in quella preminente posizione della stanza, una qualche forma di riconoscenza per il successo professionale che le aveva fatto indiscutibilmente conseguire.
Quel tubo di cartone, rivestito di consunta carta colorata, era divenuto un oggetto particolarmente familiare, caro per lei, avendo avuto la capacità, finanche avesse avuto un’anima, di percorrere al suo fianco gran parte della sua vita non passivamente, ma con carattere, con un ruolo determinante, quasi avesse ricevuto il divino incarico di prendersi cura di lei, di aiutarla, di proteggerla.
Scomparso il padre, con la cruda naturalezza che solo la vita riesce ad imporre, ad un dato momento si era ritrovata anziana nel salotto di casa a giocare con la nipotina Alessia e, ancora una volta, in una sorta di riuscita nemesi, con il suo caleidoscopio.
Alla bimba, come solo le nonne sono capaci di raccontare, aveva presentato quel tubo di cartone colorato come un oggetto dotato di poteri magici strabilianti.
Solleticando la fantasia infantile di Alessia, le aveva raccontato che il suo caleidoscopio le era stato donato, un tempo passato, da un potentissimo mago che, per evitare che finisse nelle mani perfide di una strega cattiva (che con esso voleva soggiogare il mondo), glielo aveva affidato per custodirlo, per proteggerlo nel tempo, per salvare in definitiva l’umanità.
La bambina ascoltava ogni volta questa storia con appagante curiosità, a testimonianza che anche le favole più incredibili possono tramutarsi in realtà con la forza dell’immaginario di un bambino al punto che, una volta, passando il caleidoscopio nelle mani della nonna, le aveva chiesto di fare con esso, una volta per tutte, una magia.
Valeria, preso solennemente in mano l’oggetto, aveva iniziato a rotearlo e, con piglio scenico, aveva incominciato a proferire, con tono cadenzatamente cupo, roco, una incomprensibile formula magica. La bambina, dal canto suo, a bocca spalancata, quasi trattenendo il fiato, letteralmente estasiata, osservava, su di un pouf di velluto amaranto, con le spalle insaccate, tutta la messinscena.
Ad un tratto la nonna, con un lento e misurato movimento circolare, socchiuso l’occhio sinistro, si era portato all’altro occhio il mirino del caleidoscopio iniziando significativamente a muoverne il meccanismo, più che per variare le colorate forme geometriche, a voler sottolineare il verificarsi dell’imminente magia.
Quello che inizialmente doveva essere un istante, tutt’ad un tratto, era divenuto un evento magicamente sospeso nel tempo. Valeria, smarrita, aveva avvertito uno strano brivido nella schiena accompagnato ad un innaturale stato d’animo.
Quasi si fosse ripresa da un mancamento dovuto alla incipiente anzianità, persa del tutto la capacità di comprendere quanto tempo era effettivamente trascorso, aveva lentamente ripreso possesso delle sue facoltà sensoriali e, quasi per inerzia, aveva iniziato finalmente ad allontanare il caleidoscopio da suo occhio riaprendo, nel contempo anche l’altro.
Dischiusi lentamente gli occhi, scossa per un attimo la testa, non riusciva a credere a ciò che vedeva dinanzi a se.
In un gioco di ruoli invertiti, si era ritrovata seduta sul pouf amaranto, inspiegabilmente di nuovo bambina, con il suo papà, di fronte a lei, ritornato chissà come indietro nel tempo, che la osservava stranito.
Per un interminabile attimo era rimasta senza fiato, al punto che il papà, preoccupato nel vederla catatonica, in quello stato di innaturale sospensione, le aveva chiesto: “Valeria, cosa c’è, tutto a posto, ti senti bene …”.
Valeria, si sentiva bene, tanto bene, come mai si sarebbe potuta sentire.
Stringendo ancora fra le manine il suo magico caleidoscopio rifletteva sul fatto che tutto ciò che accade nella vita forse ha un senso, ha un percorso predefinito, probabilmente anche il fatto di trovarsi un bel mattino in un mercatino delle pulci in una grigia periferia cittadina.
di Marco Iannelli
P.S. Questa storia è dedicata a Valeria Cosentino, una mia giovane amica, il cui senso di stupore che riserva alle cose belle della vita riesce, con un pizzico di magia, sempre a sorprendermi, a divertirmi.
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