Il sigillo massonico
- Marco Iannelli
- Feb 11, 2016
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Se n’era andato via senza particolare clamore, in punta di piedi, quatto quatto.
I suoi familiari se ne erano fatti quasi una ragione.
A 90 anni suonati, pur se con qualche acciacco, era sostanzialmente in buona salute. Ciò nonostante i figli, i nipoti, gli amici più cari, erano più che preparati all’evento, alla sua dipartita per il semplice fatto che, pago di una vita compiacente che gli aveva donato una infinità di cose belle, era ormai lui stesso stanco di continuare il suo personalissimo, affascinante viaggio sulla madre terra ed intimamente, con una pacatezza ed una dolcezza che solo le persone anziane sanno possedere, chiedeva di finirla lì, di darci un taglio, di chiudere la partita.
L’evento, quando alla fine era accaduto, non aveva sorpreso alcuno.
Pur nel comprensibile dolore che nasce dall’affetto, ciascuno era sereno che, in fondo, si era compiuto un destino che, pur se ineluttabile, era stato ormai da tempo intimamente richiesto, sollecitato dal diretto interessato.
Tra i parenti accorsi al capezzale, il più affranto era suo nipote Ninì.
Era seduto basito, assorto su di una poltrona posta meticolosamente a tangente di un angolo della stanza, a cui il tempo aveva donato senza fretta, goccia a goccia, il carattere austero delle cose antiche. Lo sguardo basso cristallizzato in una fissità innaturale testimoniava l’intensa partecipazione, anche fisica, a quell’evento.
Tra i presenti era quello che, più d’ogni altro, catalizzava l’attenzione; foss’altro per il fatto che la sua magrezza innaturale era ulteriormente accentuata dall’astrazione propria del dolore che gli conferiva una posizione curva, rannicchiata che aveva qualcosa di spettrale, di lugubre.
Tra i nipoti, Ninì, per una singolare affinità caratteriale, era stato particolarmente vicino al nonno, soprattutto dalla scomparsa prematura di suo padre.
Tra i due c’era un silenzioso dialogo fatto di sguardi, di intese, di complicità che consentiva loro di comunicare con una intensità, una forza che risultava essere più concreta di mille parole. Il vecchio, rimasto vedovo, sentendo prossima la fine, ormai da qualche anno aveva incominciato, poco alla volta, a far conoscere al suo nipote preferito gli oggetti intimamente più cari che avevano popolato la sua vita.
Nei lunghi pomeriggi in cui Ninì passava a trovarlo, con senso di comunanza si sedevano assieme al tavolo della cucina e, sgomberatolo del portafrutta in vimini che aveva oramai una funzione più decorativa che altro, davano spazio ai vari scatoli di cartone in cui l’anziano aveva riposto negli anni le sue cose più care.
Vecchi album di fotografie di famiglia, ricordi del periodo di guerra, lettere consunte, collezioni di francobolli, ed un variegato alternarsi di oggetti d’epoca, prendevano magicamente forma dalle mani dei due sul piano d’appoggio del tavolo in linoleum, finto marmo verde variegato, per assurgere, anche solo per un attimo, al rango di protagonisti di questa virtuale passerella dei ricordi, del passato.
In un silenzio mistico, i due trascorrevano assieme interi pomeriggi a scartocciare e riporre i vari oggetti contenuti nelle scatole sul ripiano del tavolo ed ad osservarli per alcuni interminabili minuti durante i quali, dopo essersi scambiati sguardi di forte intesa che testimoniavano che il tempo trascorso era quello effettivamente necessario, provvedevano a riporli nuovamente, uno ad uno nelle rispettive scatole, con una delicatezza ed una cura singolare; non prima però di averli riavvolti nuovamente nella carta velina di appartenenza ingiallita.
L’attività di riporre ogni singolo ammennicolo nella rispettiva scatola di provenienza era “commentato”, come sempre nel più imbarazzante silenzio, con eloquenti segni di approvazione definiti da entrambi con il capo.
In una di queste sessioni pomeridiane in cui venivano rinverditi circa 85 anni di ricordi di famiglia gli era capitato di vedere, fra i vari oggetti sul piano del tavolo, un anello d’oro di foggia antica che aveva incastonato un grosso rubino sul quale era stata effettuata una incisione, sempre in oro zecchino, raffigurante il simbolo della massoneria.
La prima volta che era apparso sul tavolo questo anello, l’attenzione di Ninì era stata rapita a tal punto da quell’oggetto che, violando inusitatamente il patto, la consegna del silenzio, aveva chiesto a suo nonno di raccontargli la storia di quell’oggetto prezioso.
L’anziano, con una punta di malcelato fastidio per aver dovuto interrompere l’esposizione dei ricordi ed aver soprattutto dovuto subire la violazione unilaterale del comune accordo del silenzio, aveva spiegato con poche misurate parole che l’anello, a sua memoria, era appartenuto dapprima al suo nonno paterno e gli era pervenuto in eredità per il tramite di suo padre divenuto, a sua volta, custode ultimo dell’oggetto alla dipartita del genitore.
L’attuale custode del sigillo, calzandolo sul mignolo della mano sinistra, e mostrandolo al giovane con la stessa grazie e convinzione di una fanciulla che mostra eccitata alle amiche la prima vera di fidanzamento, aveva precisato che intorno a quell’anello d’oro da 100 e più anni circolava una strana, inquietante leggenda.
Guardandosi attorno con fare circospetto, neanche i muri avessero avuto orecchie, aveva incominciato a raccontare sottovoce che quando suo padre gli aveva passato in consegna l’anello, prima della dipartita, gli aveva precisato di non indossarlo mai e poi mai senza motivo (il valido motivo, la legittimità dell’utilizzo sarebbe dovuta risiedere nell’appartenenza a qualche loggia massonica) in quanto un utilizzo improprio dell’anello, per un arcaico sortilegio, avrebbe potuto causare la morte di un parente di un amico prossimo di colui che immotivatamente aveva infilato al dito quell’anello.
Per questo motivo, il sigillo era accuratamente tramandato in famiglia da padre in figlio, proprio per scongiurare possibili incidenti nel caso fosse finito imprudentemente in mani ignare.
Alla lettura dei voleri testamentari del nonno, Nini non era quindi rimasto sorpreso più di tanto quando il notaio gli aveva consegnato una busta chiusa color ocra, siglata da suo nonno sui lembi in più punti, e con su scritto di suo pugno: “da consegnare esclusivamente nelle sole mani del mio caro nipote Ninì”.
Al tatto, la busta lasciava presagire, a chi ben conosceva la storia del famoso anello, che dentro non poteva esserci null’altro se non proprio quell’oggetto antico e prezioso.
Presa in consegna la busta, tra la curiosità diffusa degli astanti che avrebbero pagato qualunque cifra per sapere cosa c'era dentro, l’aveva infilata con cura nella sua borsa di pelle nera martellata e, una volta a casa, al riparo di occhi indiscreti, aveva provveduto ad aprire l’involucro cartaceo tirandone fuori l’anello.
Quest’ultimo, in ragione della tetra legenda che si tirava dietro, nelle more di definire in tutta calma come gestire al meglio quell’imbarazzante feticcio, era stato per prudenza immediatamente riposto in fondo ad un cassetto del suo studio. Questa operazione, neanche l’oggetto fosse stato un essere umano, era stata completata dal diretto interessato profferendo, in modo cantilenante e sopra pensiero, la frase: “eccoti qua a casa, poi vediamo cosa bisognerà farne di te”.
Da quel momento si erano alternate pigre diverse stagioni al punto che, riordinando un bel giorno la sua scrivania, all’atto in cui il sigillo appartenuto a suo nonno aveva fatto nuovamente capolino fuori, un istante dopo aveva mentalmente dovuto prendere atto di aver dimenticato di averlo riposto lì.
Con l’anello nuovamente tra le mani, nella solitudine della stanza, lacerato da mille incertezze connesse alla legenda anelante attorno al sigillo, alla fine, facendo prevalere un senso di recondita curiosità, era stato un attimo e, trattenendo nervosamente il fiato, aveva infilato al dito mignolo della mano sinistra il sigillo massonico.
Così come aveva visto fare a suo nonno.
Era stato alcuni interminabili minuti fermo, basito con l’animo di chi è predisposto all’arrivo di un evento preordinato e s’aspetta che da un momento all’altro debba accadere qualcosa di spiacevole.
Trascorso un tempo indefinito, aveva sfilato l’anello dal dito e, consolato per quel qualcosa che alla fine non era accaduto, lo aveva nuovamente riposto in fondo al cassetto da dove poco prima era saltato fuori.
Il sonno del mattino era stato turbato dal suono lontano dello squillo del telefono che, accavallandosi con il ricordo degli accadimenti della sera prima caratterizzati dall’inquietante esperimento dell’anello, lo aveva bruscamente riportato con tutti e due piedi calzati nella realtà.
Con gli occhi ancora chiusi, aveva meccanicamente preso in mano la cornetta e, rimanendo steso sotto le coperte, aveva profferito con voce impastata un “pronto chi è…” inequivocabilmente annacquato dal sonno.
Dall’altra parte della linea c’era stato un innaturale silenzio cui era seguito:
“Ninì… pronto sono Alfredo, scusa l’ora, ma ti ho chiamato per avvertirti che il fratello della nostra comune amica, la carissima Luisella, stanotte inspiegabilmente è morto. Non si sa ancora come, ma lo hanno trovato poco fa incomprensibilmente nel letto esanime. Ho ritenuto opportuno chiamarti subito per fartelo sapere nel caso volessi mandarle le condoglianze. Scusa, ma ti lascio perché sento che dormivi. Ci sentiamo dopo con più calma”.
Scosso da un sussulto, era rimasto sotto le coperte disteso come uno stoccafisso con la cornetta ancora attaccata all’orecchio che gli rimandava il segnale di linea occupata.
Ricomposto l’apparecchio telefonico grazie ad un braccio meccanicamente fatto uscire da sotto le coltri, si era seduto in mezzo al letto con la bocca spalancata e lo sguardo perso nel vuoto.
Con indosso calzato un profondo senso di angoscia pari solo al disordine mattutino dei suoi capelli, aveva ripercorso mentalmente, in tutte le sue fasi, l’esperimento dell’anello della sera prima, ma ancor più aveva mentalmente rinvangato le cadenzate raccomandazioni riguardanti l’aureo sigillo che gli aveva fatto tempo addietro con tono solenne suo nonno.
“Non è possibile”, ripeteva tra sé e sé quasi a volersi convincere. “Non può esserci un nesso, è solo una terribile, maledetta coincidenza. Diamine, siamo nel XXI secolo, certe cose non possono, non devono accadere. Mica siamo nel medioevo”.
Eppure, più avanzava mentalmente motivi a sostegno della contraddittorietà e casualità dell’accaduto e più la realtà dei fatti si affacciava, in tutti i suoi elementi circostanziati, con prepotenza all’orizzonte della sua mente.
La giornata, di seguito, era trascorsa con quel pensiero incombente che a tratti veniva a galla trascinandosi dietro, neanche fosse stata una boa con attaccata a traino una barca, un senso di tormentata colpevolezza.
Gli impegni quotidiani, le difficoltà economiche e lavorative avevano in qualche modo arginato, messo da parte gioco forza il ricordo penoso dell’accaduto riportando Ninì agli affanni della vita di tutti i giorni.
Trovatosi una sera solo a casa, per aver ricevuto buca da un’amica di turno, un po’ per pigrizia, un po’ per stizza dettata da orgoglio maschile, girovagando nei pressi della scrivania dello studio aveva tirato nuovamente fuori dal cassetto l’anello massonico.
Sovrappensiero, se lo guardava e riguardava con curiosità rigirandoselo fra le mani manco lo avesse visto per la prima volta e, tutt’ad un tratto, senza neanche accorgersene, se lo era ritrovato ancora una volta calzato al dito mignolo.
Memore dell’incidente verificatosi tempo prima (così lo aveva mentalmente classificato per archiviare come meglio poteva l'ingombrante faccenda), ma soprattutto resosi conto che la situazione gli era in qualche modo sfuggita nuovamente di mano, aveva immediatamente sfilato l’anello dal dito e, quasi a volerlo nascondere, con un crescente senso di ansia lo aveva subito riposto fra le mille cose che disordinatamente affollavano il cassetto.
Da quell’ultimo episodio erano trascorsi alcuni giorni al punto che, il lasso temporale intercorso senza il verificarsi di particolari accadimenti nefasti, lo aveva ormai convinto della casualità dell’incidente accaduto mesi prima.
Quella mattina, andando in auto al lavoro, il programma musicale in onda era stato improvvisamente interrotto per dare la notizia di cronaca di una sciagura aerea che aveva investito i passeggeri di un volo diretto quella mattina a Vienna.
La notizia, inizialmente accolta distrattamente, aveva immediatamente macinato posizioni sulla sua personale scala dell’attenzione nel momento in cui aveva ricordato che Tea la sorella di Alfredo, l’amico che tempo addietro gli aveva comunicato telefonicamente la notizia della morte del fratello di Luisella, era diretta a Vienna per lavoro proprio su quel volo.
Preso letteralmente dal panico aveva bloccato lì la macchina e, tra lo strombazzare idrofobo delle auto in fila dietro di lui, aveva cercato senza fiato ricovero nel bar di fronte per bere un bicchiere d’acqua ristoratore.
Per il suo personalissimo modo di vedere la questione era ormai chiara.
Al di là di ogni ragionevole dubbio (come si usa dire in gergo legale) sussisteva un chiaro ed inequivocabile nesso di casualità fra l’uso improprio di quel maledettissimo anello e i funesti accadimenti occorsi in capo ai suoi amici più cari.
Prendendo coraggio a quatto mani, aveva finalmente messo a fuoco, secondo il suo modo di vedere, la pericolosità del sigillo ed aveva quindi deciso che era necessario sbarazzarsi immediatamente di quello scomodo oggetto antico.
Detto fatto. Mettendo da parte i severi ammonimenti di suo nonno ed ogni logica prudenza necessaria, indispensabile con un oggetto così oscuro e pericoloso, lo aveva portato all’antiquario sotto casa e lo aveva ceduto quasi in un impeto d'ira.
Nei giorni successivi aveva poco a poco riacquistato un senso di serenità sottratto dai più recenti, spiacevoli accadimenti al punto che, quasi per festeggiare lo scampato pericolo, aveva deciso di organizzare una cena a casa proprio con gli amici a cui era più legato. Esauriti tutti i preparativi era pronto sul divano a ricevere le persone che di lì a poco sarebbero giunte.
L’euforia aveva ormai soppiantato i brutti ricordi tanto che, varcata la soglia di casa l’ultimo, atteso ospite, aveva iniziato a tenere salotto da buon padrone di casa con fare brillante. Spostandosi da un divano all’altro del salotto, prodigandosi in convenevoli di circostanza, aveva tenuto banco fino ad allora; sicuramente fino al momento in cui aveva notato all’anulare della mano sinistra della sua amica Giovi un anello che conosceva bene, troppo bene.
Pervaso da un crescente senso di disperazione si era accostato a Giovi e, con la scusa di offrirle una tartina al caviale, le aveva chiesto timoroso di quell’anello antico così particolare.
La diretta interessata, sollecitata sul vivo sul suo recente, riuscito acquisto, gli aveva immediatamente raccontato, con una punta di soddisfazione tutta femminile, che quel bellissimo anello lo aveva acquistato quindici giorni addietro dall'antiquario sotto casa sua e da allora, neanche fosse stato calamitato dal suo dito, non lo aveva mai tolto.
Il particolare raccontato da Giovi di non averlo mai tolto dal dito per quindici giorni, da un lato lo confortava, perché apparentemente nulla era accaduto, dall’altro lo inquietava all’inverosimile perché: se nulla era accaduto fino ad allora, non era affatto da escludere che, da un momento all’altro, l’irreparabile sarebbe potuto sopravvenire.
Sentiva, avvertiva, che la frittata era ornai fatta.
Valutando l'improvvisa ricomparsa in casa dell'anello come un segno premonitore, un oscuro monito del destino, con la mente completamente estraniata dal contesto in cui si trovava attendeva, con crescente e vivida preoccupazione, che gli piombasse da un momento all’altro fra capo e collo, il catastrofico incedere degli eventi.
Neanche se lo fosse chiamato, il telefono di casa aveva di lì a poco iniziato a squillare nervosamente raggelando, all’unisono, la conversazione di tutti gli astanti.
Ninì pervaso da una sorta di funesto presagio aveva preso a due mani la cornetta e, guardandola per una serie di interminabili secondi con un'innaturale fissità, aveva finalmente risposto con un “pronto” strozzato in gola a cui aveva dato riscontro la voce, ancor più spettrale della sua, di Marta sua sorella.
“Ninì, ciao, perdonami, sono Marta. Non so come dirtelo, ma nostro cugino Lucio ha avuto un bruttissimo incidente in moto e purtroppo è morto…”
Alla notizia Ninì, tra gli sguardi stupefatti dei suoi ospiti, era caduto in ginocchio a terra accartocciandosi come un pupazzo di pezza svuotato di colpo, non tanto per il dolore iimprovviso provato per il parente scomparso, ma per il fatto di aver dovuto prendere contezza che in questo giro di mano, grazie al potere oscuro dell'anello, era toccata a lui la perdita di un congiunto. Che il gesto di disfarsi di quell’antico anello di famiglia era stato un errore gravissimo, imperdonabile ed avrebbe aperto, in un futuro prossimo, un vaso di Pandora con conseguenze senza fine.
Cosa dirvi, le antiche famiglie custodiscono storie ancestrali strane, che si tramandano di padre in figlio, che hanno un'anima e che non gradiscono affatto di essere spostate inopinatamente in altri contesti.

di Marco Iannelli

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